Danisinni tra storia e leggenda
Rione Danisinni o Denesinni, nella forma dialettale, viene considerato il territorio compreso tra le vie Cappuccini, Cipressi, Colonna Rotta e piazza Indipendenza; geograficamente la depressione naturale di terreno che un tempo raccoglieva le acque del fiume Papireto, uno dei due fiumi che attraversavano Palermo. La zona occupa una vasta depressione naturale che rimase fuori del perimetro urbano della Paleopoli e della Neopoli sia in epoca punica che in epoca romana. La parte alta della sponda sud del piano di Danisinni, e tutta la lunghezza dell’attuale via Danisinni coincidono con uno dei lati della necropoli, ne è conferma il ritrovamento di alcune tombe ricche di corredo funerario, venute alla luce durante gli scavi per la costruzione di abitazioni nei primi anni del novecento. Le prime notizie storiche a noi pervenute risalgono all’epoca araba: un mercante di Bagdad ‘Ibn Hawqal, giunto a Palermo nell’anno 972-973, nel suo libro “Delle vie e del reame”, dà notizie dell’esistenza di una depressione a monte dello Hàrat as-Saqàabdh (il quartiere degli schiavoni), uno dei cinque quartieri in cui, nel periodo della dominazione araba, era divisa la città.
Riportiamo la traduzione dall’arabo di Michele Amari:
“Quivi stendesi anco una fondura tutta coperta di papiro, ossia bardì ch’è proprio la pianta di cui si fabbricano i tumar (rotoli di foglio da scrivere)…Io non so che il papiro d’Egitto abbia su la faccia della terra altro compagno che questo di Sicilia. Il quale la più parte è attorto in cordame per le navi e un pochino si adopera a far de fogli pel Sultano…”.
Dentro la “fondura” scorreva, fiancheggiato da terreni paludosi, il leggendario fiume Papireto, che, costeggiando la città, giungeva al vecchio porto, oggi cala. Forse perché il papiro cresce rigoglioso sulle rive del Nilo, le leggende popolari fantasticarono che il Papireto ricevesse le acque dal fiume africano, che per le vie sotterranee sgorgava dalla grotta di Danisinni.
“Dal cupo fondo di una ben lata limacciosa grotta, che ha la forma di un’ampia stanza, con volta sopra fattavi di vive selci, prendendo posto lungo le mura di Palermo dalla parte di ponente sopra il Pipirito in distanza di 500 passi, ci vien donata questa gran fonte. L’erbe e verzure, che la impellicciano, li tortuosi canali del suo bel corso, che alle donne fan lavatoj”…., così descrive il Villabianca la grotta e la sorgente “Anisinde”.
Gli arabi sfruttarono le acque purissime di Danisinni, tanto che intorno all’anno 1000, l’emiro Giafar Ibn Yusuf fece costruire un acquedotto per approvvigionare alcune fontane della città.
L’origine del nome Danisinni, risale probabilmente ad una delle sorgenti che in questo luogo alimentavano il fiume, forse proprio quella che scaturiva dalla grotta grande. La sorgente – citata da ‘Ibn Hawqal – era chiamata”Ayu’abi Sa’Idin (la fonte di Abu Said), o forse prese il nome dalla bella Principessa figlia di un walì del tempo, Abu Said, soprannominato “Ahmad’ad Dayf , l’ospite, che sulla grotta costruì la sua dimora. Quest’ultima ipotesi potrebbe essere la più attendibile perché avallata dalla tradizione popolare. Nel passato l’area denominata Danisinni era molto più estesa del territorio considerato oggi, tanto da lambire il parco della Zisa ed estendersi ben oltre il convento dei Cappuccini. La lettura di antichi atti notarili ci fa capire che a causa della grande estensione il territorio era diviso in contrade.
Il Senato di Palermo, nella licenza di concessione edilizia ai Frati Cappuccini nel 1534 per l’edificazione del loro convento, indica il luogo scrivendo: -” extra moenia in contrada S. Lunardi de Dainisindi”.
Proprio per questoi palermitani nella forma dialettale volgono al plurale il nome del quartiere, anteponendo l’articolo i: “i Denesinni”; questa forma viene ripresa spesso nella lingua italiana.
Il nome del rione si tramandò invariato nei secoli, come prova una Carta di Palermo del 1823, redatta a Londra nella quale si legge chiaramente l’indicazione di una fonte chiamata “Ayn Sindi”. Il nome fu poi storpiato prima in Anisinde e poi in Denesinni o Danisinni.
Nel XV secolo l’inquinamento delle acque del fiume e della palude raggiunse livelli di pericolosità tali che il Senato palermitano, nel 1489 decise il prosciugamento dell’alveo e il risanamento della palude; ma il progetto, che prevedeva la canalizzazione delle acque fino alla cala, fu messo in opera solo nel 1590, grazie al pretore Andrea Salazar. Il canale, ancora esistente, si trova a circa otto metri di profondità rispetto all’odierno piano di piazza Danisinni.
Furono proprio i problemi legati all’inquinamento la causa della fantasiosa diceria che le puntura di un insetto, particolare di questa zona, causasse la morte delle donne punte “in certi periodi del mese”. Si racconta infatti che i mariti che volevano sbarazzarsi della moglie la portavano a passeggiare proprio in questi luoghi.
Tra le molte sorgenti affioranti a Danisinni, di notevole importanza fu la sorgente dell’Averinga, le cui acque, attraversando tutta la città giungevano sino all’attuale piazza San Francesco d’Assisi. Di tale sorgente rimase il nome legato ad una costruzione situata all’angolo tra via G. Albina e via G. Vulpi, “l’Averinga dell’acqua”. Si trattava di una costruzione di forma rettangolare di m. 10,63 x 9,55, con due finestre, di cui una a trifora, divisa da due colonnine di marmo bianco con capitelli e basi dello stesso marmo. Enrico Salemi, socio della Società di Storia Patria, già nel 1882 richiamò l’attenzione degli studiosi su questo monumento abbandonato.
Nella sua relazione, Salemi descrisse le decorazioni, oggi scomparse, visibili sulla parete sinistra: “In essa sono esistenti gli stipiti e i sopraccigli sullo stile del 500 di due vani di porte, sopra questi erano incastrati due stupendi rosoni di maiolica; di quello a destra esistono poche tracce, ma dell’altro a sinistra ne esiste tanto da poterne valutare il pregio. All’esterno del rosone, gira una prima fascia ornata di fogliami, fiori e frutta rilevati, il tutto colorato a varie tinte e smaltato. L’intonaco conserva l’impronta di un rivestimento di quadretti probabilmente anch’essi smaltati”.*
La costruzione non era altro che una vasca coperta che aveva la funzione di proteggere la preziosa sorgente Averinga, le cui acque alimentavano numerose fontane cittadine, come la fontana della Ninfa, le due fontane di piazza San Francesco d’Assisi, quella del Garraffo (perciò veniva chiamata “la Testa del Garraffo “), quella della Guilla e un’altra situata in via Schioppettieri. Quando il Senato palermitano provvide a prosciugare le paludi del papireto, pensò bene di raccogliere le acque purissime delle sorgenti di Danisinni e di questa fonte in un’ampia vasca circondata di marmi (1587). La costruzione esiste ancora, e un auspicabile restauro porterebbe di certo alla luce particolari interessanti.
La purezza e le qualità dell’acqua di Danisinni, vengono lodate in un vecchio canto popolare: “cu vivi l’acqua ri Denesinni campa quantu Noè, novicent’anni”. Con la bonifica totale il letto del fiume fu trasformato in fertili orti, e attorno si incrementò l’insediamento. Alle piccole case dei “pirriatura”, i cavatori, che dalle cave di Danisinni estraevano i duri conci di arenaria, si aggiunsero le case per i contadini e per umilissime famiglie che non potevano permettersi una casa dentro le mura cittadine.
Spesso le abitazioni erano addossate alle grotte che si aprivano lì dove erano state le sponde del fiume, pertanto molte abitazioni erano ricavate da grotte risquadrate alle quali veniva costruita solo la parete del prospetto.
Nel corso dei lavori di ristrutturazione di un appartamentino attiguo alla chiesa di Danisinni, si è potuto constatare che le pareti e il pavimento erano state ricavate dallo stesso banco di pietra; evidentemente il sito si è formato a seguito dell’asportazione di blocchi di calcarenite. E’ curioso come anche la canalina di scolo fognario, realizzata sicuramente i primi del 1900, fosse stata realizzata intagliando la stessa roccia.
Presso la grotta di Danisinni, in quell’acqua che da sempre sgorga limpida, trovarono il “pane”, cioè il lavoro, le lavandaie che facevano il bucato per la nobiltà palermitana. L’esercizio di quest’attività fu presa in considerazione dal comune, che nel 1884, fece costruire un pubblico Lavatoio.
In proposito lo studioso V. Mortillaro riferisce che la Giunta del 1851 volse l’attenzione ai lavatoi pubblici, per evitare la diffusione delle malattie contagiose: “Ognuno conosce come può esservi nella lavatura degli abiti e delle mutande un mezzo di diffusione di certe malattie contagiose, con questo scopo volle l’autorità municipale regolare questo servizio ed un primo stabilimento di questo genere è già compito, ma non è stato ancora consegnato alle lavandaie di Danisinni che lo reclamano. E a sperarsi che, rimossi certi ostacoli frapposti da privati interessi illegittimi, l’autorità proceda al compimento del progetto”
Il lavatoio consisteva in una costruzione rettangolare in conci di tufo. La copertura realizzata a due falde con capriate in legno e tavolame era coperta da coppi siciliani. L’interno era ben areato e prendeva luce da cinque finestre a lunetta poste su ciascuna delle pareti perimetrali. Entrando da un portone rettangolare sormontato da una finestra a lunetta, simmetrica all’altra, posta sul lato opposto del locale, scendendo sei gradini si accedeva al lavatoio. Il pavimento era stato realizzato a quota inferiore al piano di calpestio della piazza, per far si che l’acqua raccolta in una vasca (cisterna) posta in fondo al locale, fuoriuscisse dai rubinetti (cannola) per caduta naturale. Le vasche, “le pile”, erano disposte lungo le pareti laterali. Il Comune dava le vasche in concessione. Il lavatoio aveva un custode comunale, che sorvegliava “la lavanderia”.
Oggi del lavatoio si vede ben poco. Ad esso sono addossate numerose casupole, si intravede ancora qualche finestra a lunetta e il portale d’ingresso, forse si potrebbero ancora recuperare le vasche (le pile) che restano sepolte sotto il pavimento. Anche la grotta di Danisinni non è più visibile, essa rimane dietro una costruzione, ma l’acqua vi sgorga ancora.
A nord-ovest dell’ingresso del lavatoio, sopra la scalinata (scala araba) che collega la piazza con via Sopra la Grotta Danisinni, si trova la Torre, antichissima costruzione con evidenti particolari databili al I°millennio D.C., forse parte del leggendario “Palazzo Rosso” di Abu Said, poi trasformato in torre di guardia per la sorgente.
La Torricella (caseTodaro), incastrata sul muro recinto della depressione, è il prospetto laterale di un edificio posto sul “belvedere”. Il ritmo verticale della partitura e la simmetria ordina il paramento dell’edificio, scandito da un ritmo regolare di lesene, dove a centro si aprono le finestre. La continuità tra pieni e vuoti rafforza l’asse verticale e orizzontale del prospetto. E’ interessante segnalare l’attenzione posta dall’anonimo progettista nella soluzione della chiusura dell’edificio: una fascia decorata, semplice ma elegante in cui sono ripetuti dei rosoni colorati. Ancora visibili sono le tracce di intonaco azzurro sulle pareti.
La riproduzione di un quadro raffigurante il piano di Danisinni nel 1800, è custodita nella sagrestia della Parrocchia, l’originale di Francesco Lojacono si può ammirare alla Galleria d’Arte Moderna di Palermo.
Dal 1800 e sino ai primi anni del 1900, molti si interessarono alla ricerca di un misterioso tesoro saraceno, la cosiddetta ”truvatura”. La leggenda vuole che presso la sepoltura di un nobile arabo furono nascoste le sue ricchezze, per evitare il latrocinio del di lui fratello ai danni della legittima erede, la bellissima principessa Aynsindi, forse la figlia del già citato Abu Said. Quest’interesse durò finché durò la pazienza dei proprietari degli orti. La bassura naturale del letto del Papireto è ancora visibile nella sua dimensione originaria, sono ancora visibili i resti della cava, parte del promontorio di calcarenite, corrispondente alla zona dove è situata la chiesa.
La pietra di Danisinni, calcarenite molto dura, è stata usata anche nella fabbrica del Palazzo dei Normanni, e più recentemente nella fabbrica del Teatro Massimo. (Testo di Sebastiano Morello)
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